Io vivo al Tufello, prima ho vissuto a Centocelle, Casilino-Labicano e Tiburtino.
Negli anni ottanta, tra il Pigneto, Torpignattara e Centocelle, c’erano pochissimi immigrati, ma gli indici della qualità della vita erano molto peggiori di adesso: furti, rapine, morti per overdose. Non era una matrice “etnica” allora, non lo è adesso. Era la crisi post anni 70, disoccupazione, riflusso, quartieri morti per eroina, carcere, assenza di servizi e spazi di socialità.
Spaccio e degrado, quartieri senza vita che si spegnevano alle sette di sera (a parte i rari centri sociali), la brava bella e italianissima mala romana gestiva bische, scommesse, sfasciacarrozze, pizzo, speculazione edilizia nella città post sanatoria dei borghetti.
Qualcuno ricorda via Braccio da Montone tra l’85 e metà anni novanta? Qualcuno ricorda via Acqua Bullicante alle otto di sera? Il nulla e la paura.
Ho rivisto rinascere mano a mano un quartiere, più quartieri, seppur in maniera contraddittoria, come tutte le città globali. Ho visto le luci accendersi fino a tardi, la gente riprendersi (anche) in maniera caotica le strade, spazi e locali, socialità confusa ma viva. E mano a mano, tutti gli indicatori di microcriminalità scendere, nell’omertà della questura e della politica, impegnata a costruire il capro espiatorio di turno, per continuare a regalare la città ai poteri forti. Mentre la crisi parla la lingua della più vergognosa disuguaglianza sociale dal 1929.
Divertitevi a leggere il Messaggero quando, ogni anno, riporta i dati sulla criminalità riferiti dalla questura. Decima pagina, taglio basso, massimo dieci righe.
Certo, scopriamo a un certo punto che gli spacciatori spesso hanno i volti degli esclusi e dei poveri, migranti, ma sempre in combutta con capi bastione italianissimi, tra camorra e forze dell’ordine compiacenti o complici (detto a mezza bocca da poliziotti in servizio al Pigneto o letto nella sentenza di condanna al generale dei carabinieri Ganzer).
A San Lorenzo stesso film, con gli italianissimi proprietari di casa che la sera si lamentano delle birre e il giorno affittano a 400 euro al nero una stanza a studenti, un sottoscala agli immigrati.
Se togliamo la testa dalla sabbia, scopriamo che la soluzione passa per due anomalie: il proibizionismo, amato da politici, polizia e mafiosi; la competizione delle briciole tra poveri, che non fa alzare la testa contro chi, per esempio, si è preso i soldi pubblici per 40 anni e ora deindustrializza il paese. Miracolo: al Pigneto, ora, dopo aver cercato tra i passaporti la causa dello spaccio, Comitati e Municipio, iniziano a parlare di “spazi autorizzati al consumo ludico e controllato di smart drugs”, canne e dintorni. Come avviene in Spagna, parte del nord Europa, in tantissime città degli Usa.
La narrazione tossica, che sta riempiendo questi giorni, contagia tutti, anche stimati cittadini che parlano di “casina loro” o di correlazioni fantasiose tra reati ed ‘”etnie”, generalizzando e riducendo la complessità al copione che, dall’alto, ci mette uni contro gli altri. Pensiamo solo alla questione delle molestie e degli stupri, così spinti in queste ore di follia a Tor Sapienza.
I fascisti dichiarati e i maschietti benpensanti ogni volta ripetono a pappagallo la correlazione tra “straniero” e violenza contro le donne. Purtroppo gli sfuggono le uniche correlazioni evidenti e dimostrate: 1) che sono i maschi, al di la del passaporto, che commettono violenza. 2) che l’80% delle violenze avviene dentro casa, da maschi che le donne conoscono, fratelli mariti amici conoscenti ex fidanzati. Bravi e bianchi, nati e cresciuti in quel frequente e a volte orrido luogo chiamato “famiglia”.
La narrazione si nutre di memoria corta.
Siamo un paese di immigrati cronici; in America siamo stati trattati come topi di fogna, mentre contribuivamo alla ricchezza di quel paese e alla nascita di una delle più forti organizzazioni dei lavoratori del ‘900, IWW (Industrial Workers of the World), che ha anticipato le conquiste sociali mentre in Europa imperava il nazismo: salari minimi, diritti di associazione, welfare, ecc. Gli ultimi arrivati – italiani, irlandesi, cinesi, russi – conquistavano diritti per tutti.
La narrazione si nutre di premesse false: “un’invasione”, “ci tolgono il lavoro”.
La “locomotiva Germania”, nella sola meta degli anni novanta, ha accolto circa 500 mila profughi della ex Jugoslavia, che non ha impedito un sistema di welfare che invidiamo ancora.
Siamo tra gli ultimi paesi in fatto di stanziamento stabile, molti passano per andare via, contribuendo così al Pil e alla previdenza in misura nettamente maggiore di quanto ricevono. I migranti, insieme ai precari e alle partite Iva povere, pagano la previdenza a tutti e non vedranno una pensione!
Oltre, al piccolo dato, di pulire il culo ai nostri vecchi, raccogliere per due lire i nostri pomodori, morire per 20 euro nei nostri cantieri, spesso anche in silenzio.
Ma se proprio non volete farlo per etica – perché incapaci di comprendere le dinamiche globali, sociali, di guerra che presiedono le migrazioni moderne – provate a praticare un antirazzismo “per convenienza”: lottare per diritti comuni significa IMPEDIRE IL RICATTO.
Un’accoglienza dignitosa, un salario minimo, un reddito garantito, una sanità e una scuola pubblica per tutti, nativi e migranti, fa vivere meglio la gente, riduce il degrado, favorisce lo scambio.
Perché altrimenti non si capisce la composizione sociale che vive nella merda delle nostre carceri: ci vedete voi un colletto bianco, un Ad della multinazionale, un capo di governo, uno speculatore, un poliziotto che ha ammazza di botte il pischello di turno (o l’immigrato di turno)?
A meno che pensiate che i poveri (gli sfruttati, i subalterni, la gente comune, chi vive del proprio lavoro, chiamateli come cazzo vi pare) abbiano un dna che giustifichi la propria condizione, che sono cattivi dentro, e che queste caratteristiche siano “etniche”. E che per questo devono essere mandati via.
Ma via da dove, e da chi?
L’etichetta dello “straniero” è mobile: da negro, zingaro, cinese si passa facilmente a napoletano, romano, calabrese per finire con operaio, precario, studente, donna, frocio. Ci saranno sempre “ebrei di qualcun altro” ripeteva Primo Levi.
Come furono trattati i “terroni” al nord? Quelli che poi fecero le lotte in Fiat conquistando i diritti per tutti? E gli abruzzesi, pugliesi, campani che vennero negli anni sessanta a Roma, tra i baraccati, a lavorare come schiavi e ricevere disprezzo?
Dopo l’ubriacatura liberista degli anni zero, sembra di esser tornati alla fine dell’800, con una crisi epocale che rischia di aprire una guerra in basso, tra chi sta in basso. Da una parte, sacrifici e sfruttamento imposti dai poteri economici sovranazionali, dall’altra finte alternative populiste e di sfogatoio sociale. Un bel target da mettere in giro tra gli ultimi, nelle città, nelle periferie.
Io conosco bene Tor Sapienza. Non è un caso che le situazioni fragili vengano scaricate nelle periferie. E, a parte chi lo fa di mestiere (vecchi e nuovi nazi, vigliacchi e pagati), io non voglio mettere in croce chi per ignoranza o esasperazione si rivolta in questo modo infame. Lo voglio fermare si, ma per parlare, capire, cambiare il senso di questa rabbia infame.
Noi vogliamo combattere la povertà o i poveri? l’esclusione sociale o gli esclusi? la precarietà o i precari? la disoccupazione o i disoccupati?
Se la mettiamo sul piano etnico o nazionale, hanno già vinto loro.
E’ un mondo di merda, ma globale, interconnesso, complesso, che non ha bisogno di scorciatoie.
La semplificazione è una bussola comoda, che ci fa sfogare la rabbia, che ci rende cattivi, che ci fa sentire riscattati mente tiriamo le molotov contro dei disperati, ci fa sentire padroni in un film scritto da altri. Ma è lo specchio della nostra impotenza e subalternità, incapace di fare male a chi ha il potere vero di farci vivere così.
Doverosa precisazione: si tratta di una testimonianza reale, che non ho scritto io, anche se darei una settimana di sonno per averlo fatto. Di mio c’è il titolo del post e alcune leggerissime limature che eliminano sfumature nelle quali facevo più fatica a riconoscermi. Non sono autorizzato a dirvi come si chiama l’autore, anche se spero di poterlo fare presto. Vi basti sapere che è Sliver, un italiano.
Bella riflessione, ma c’è un vizio di fondo e una lacuna. È stucchevole il confronto temporale tra situazioni di degrado e disagio sociale: un confronto produttivo si deve fare con una situazione migliore, il “una volta si stava peggio” non serve a molto.
La lacuna, invece, riguarda un elemento che raramente viene preso in considerazione, chissà perchè, quando si parla di queste situazioni di degrado: la – mancanza di – legalità.
Se manca quella, se – tradendo la Costituzione, per la quale dovremmo essere tutti uguali di fronte alla legge – non c’è la cultura del rispetto delle regole, all’ora ogni scenario è possibile. Inclusa la guerriglia presumibilmente fomentata da frange estreme, che notoriamente amano infilarsi e sguazzare in queste situazioni.
Trovo francamente insopportabile che la si butti subito in caciara evocando il “razzismo” (e i suoi eufemismi, come “matrice etnica”); d’altra parte, pretendre il rispetto delle regole espone chi lo fa all’accusa di “fascismo”.
Allora come se ne esce? Forse, per cominciare, rinunciando a catalogazioni standardizzate?
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Invece il confronto temporale serve eccome: perché i processi che portano all’esasperazione e all’intolleranza, sono sempre gli stessi, a Tor Sapienza nel 2014 come a Monaco nel ’30. E accendere i riflettori su un reato in virtù della nazionalità di chi lo ha commesso io non so chiamarlo in altro modo se non razzismo (lo fa anche il giornalismo, tutti i giorni, dicendoci che era rumeno o albanese il guidatore ubriaco dell’auto, lo stupratore, lo spacciatore, come se questo fosse un’aggravante del reato o, peggio, la causa intrinseca).
Perché richiamarsi alla legalità è una foglia di fico: assalire un centro d’accoglienza o un campo Rom non è legale, ma si sprecano i commenti di solidarietà verso chi, esasperato, si muove contro il “degrado”. E poi, sebbene io rispetti la legge nella mia quotidianità, non posso non riflettere sul fatto che il concetto stesso di legalità non è assoluto, ma è variabile nel tempo: la Rivoluzione Francese era illegale, la protezione degli ebrei durante il nazismo era illegale, perfino abbandonare il tetto coniugale lo era, in Italia, non troppo tempo fa.
Il fascismo non è il rispetto della legalità e non sono fascisti quelli che lo pretendono. Lo sono, sottilmente, inconsapevolmente, scivolosamente, pericolosamente, quelli che lo chiedono per la tutela di “casetta nostra”. Quelli che si fanno lavare l’auto dai cingalesi per due lire, senza domandarsi come fanno, con quella cifra, a essere ripagati dei lavoratori che usufruiscono delle opportune tutele sindacai; quelli che “facciamo una cosetta a nero” al meccanico, al muratore, alla commessa per i giorni di Natale; quelli che sopportano tutti i giorni piccole prepotenze, l’arroganza del potere, perché così va il mondo e il gioco è che pesce grande mangia pesce piccolo, tanto un immigrato su cui scaricare frustrazione e odio lo si trova sempre; quelli che la meritocrazia è giusta, basta che non lede gli interessi miei o di quel mio caro, che pure io c’ho diritto di campare; quelli del perché nelle graduatorie dell’asilo i figli degli immigrati stanno davanti a noi; quelli del “non ti preoccupare, c’ho un amico mio albanese che ti fa ‘sto lavoretto per 50 euro invece che per duecento”; quelli che se muore un italiano in india, nell’incidente aereo, dicono “poraccio, c’aveva una bambina di tre mesi”, ma poi “che palle ‘sti barconi, ma tutti noi ce li dovemo pija’?”. Ecco, quelli sono i fascisti, pure se non fanno il saluto romano. Pure se non ci vanno, ad assaltare il centro di accoglienza, ma magari commentano, sul blog d Repubblica, che “sono di sinistra, ma capisco l’esasperazione dei cittadini”. Solo di certi cittadini, però.
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Mi scusi, non mi sono spiegato. Io volevo dire che di tutta la faccenda di Tor Sapienza (e di altre periferie, se vogliamo) è stato isolato solo l’episodio dell’assalto al centro immigrati, anche l’autore dell’articolo l’ha fatto. Ma non c’è solo quello, il degrado in cui versa il quartiere (e questa città) ha molti aspetti e cause. Si vada a leggere il comunicato del Comitato di quartiere, per esempio. Sa perché parlo di legalità e rispetto delle regole? Perché le istituzioni ci hanno rinunciato, questo è il problema vero. Nessuno farebbe fare la “cosetta al nero” dal meccanico o dall’albanese a 50 euro se ci fosse chi li va a beccare in flagrante e li punisce. E’ elementare in fondo: se come società ci siamo dati delle regole, per poter convivere, e poi nessuno le fa rispettare allora è meglio che lasciamo perdere. E’ vero che per molti (non per tutti, non generalizziamo) è comodo trovare un capro espiatorio, un bersaglio facile, è una questione culturale ed educativa, e anche (o soprattutto) qui le istituzioni latitano; ma già stare tutti (italiani e non) sullo stesso piano quanto a opportunità e rispetto delle regole (parlo di quelle che esistono già, lasci stare la Rivoluzione francese) stornerebbe e isolerebbe automaticamente i razzisti veri, perché non gli darebbe più nessuna scusa. Dato questo, potremmo affrontare tutto il resto. Non trova? Io si.
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Ok, ma intendiamoci: gli immigrati di un centro di accoglienza hanno le stesse opportunità dei cittadini di Tor Sapienza? Perché io non saprei dirti quanti membri di quel comitato scambierebbero la loro vita con quella di chi vorrebbero cacciare.
Quanto denuncia il Comitato di quartiere, il degrado, non lo metto in dubbio: quello che metto in dubbio è la reazione, l’imputazione delle cause, le soluzioni proposte. Perché se rubo io (e non tu), vengo accusato io, mentre se ruba un certo immigrato (e non un altro) vengono accusati gli immigrati? Non è fascismo questo? Non è razzismo?
Dici (perdonami, diamoci del tu!) che le Istituzioni sono assenti. Bene. Tutto vero. Ma non è fuori dalla legge supplire alle Istituzioni con ronde e giustizieri? E perché la protesta allora si concentra sugli effetti e non sulle cause? Perché non si assedia il Campidoglio, il Viminale, ma piuttosto i poveracci e i disperati?
Perché non si denunciano i professionisti della solidarietà, ma si attaccano “questi che tornassero a casa loro”?
Lo capisci che è un problema più complesso di quanto si vorrebbe far credere, riducendo la questione al rispetto della legalità?
La questione purtroppo non è “rispetta le mie leggi e poi fai come ti pare”, anche solo pensarlo è miope.
Perché il passo successivo al rispetto delle leggi, è che alla scrittura di quelle leggi poi partecipi pure chi le rispetta, salvo poi, se chiede, per legge, di togliere un crocefisso dall’aula, essere tacciato di non rispettare “la mia cultura”. Una cultura impermeabile, perché refrattaria al diverso, che è un capro espiatorio. Non posso non far riferimento alla Rivoluzione Francese e fossilizzarmi sulle regole che ci sono già. Se facessi così dovrei anche, ad esempio, schierarmi contro le unioni civili, che la Legge, OGGI, non prevede, mettendo di fatto fuorilegge tutti quelli che ne pretendono il rispetto. E io non posso farlo, perché la legge è mutabile nel tempo, quello che non può mutare è la nostra condizione di umanità, che siamo chiamati a rispettare sempre, pure a Tor Sapienza.
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Ma guarda che io sono d’accordo! Mi preoccupo sempre – in generale – che l’analisi delle problematiche sia parziale: non si può arrivare alle soluzioni se non si è disposti a esaminare il contesto nella sua interezza. È prima di tutto una questione di metodo. Quanto alle regole, invece, io credo che la legalità sia alla base della civiltà. Il che non vuol dire, naturalmente, che le regole non debbano essere adeguate al mutare dei tempi e dei costumi (fatti salvi i principi cardine della libertà di autodeterminazione e del rispetto della libertà altrui). Ma io cercavo di volare più basso. Esempio: sai bene che nel calderone delle proteste ci mettono anche gli “zingari”, con la solita pretesa di cacciarli via (quando va bene). Io non conosco la cultura rom, la osservo dall’esterno. Ma sai che a Roma i controllori sul tram a loro spesso non controllano il biglietto? È tempo sprecato, sostengono, tanto si sa che non pagano e non pagherebbero nemmeno la multa. È normale che al resto dei passeggeri ‘sta cosa vada di traverso: perché a loro è stata garantita l’impunità, perché sono stati esonerati dal rispetto delle regole? (È solo un esempio, eh) Quindi, perché NON siamo tutti “uguali di fronte alla legge”? Io continuo a pensare che eliminare questa sperequazione, oltre a essere giusto per principio, toglierebbe un sacco di pretesti ai razzisti veri; quelli che usano gli ignoranti per commettere un atto illegale mandandoli ad assaltare gli immigrati coi bastoni. Gli ignoranti ci sono, e purtroppo ci saranno sempre, e loro lo sanno.
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