Quando muore un intellettuale

Quando viene a mancare un intellettuale della statura di Serianni, leggo grande rammarico, dolore e peana diffusi a piene mani, sia dalla gente comune che dal mondo politico.

Si parla sempre di grave perdita, eppure io non ricordo un periodo in cui gli intellettuali abbiano contato poco come in questa fase storica.

La cultura per taluni che la odiano è addirittura una colpa, il marchio della difesa di un’élite o dell’asservimento al sistema, l’orrenda pretesa del privilegio.

Per altri che la usano, la cultura è al massimo un orpello, da tirare fuori come si fa con l’argenteria buona, all’occasione e per fare bella figura, purché venga poi riposta nel cassetto una volta svolta la sua funzione.

Per altri ancora, i peggiori, essere intellettuali significa non usare la cultura a beneficio della collettività, ma brandirla come uno strumento di visibilità, la quale deve essere costantemente alimentata, coerentemente fine a sé stessa.

Quando muore un intellettuale vero (quale Serianni certamente era), tutti lo piangono.

Curioso che lo facciano anche quelli che, chiamati a prendere decisioni per la collettività, o a esprimere il proprio consenso o dissenso verso le scelte del potere, non siano mai stati sfiorati dall’idea di chiedere agli intellettuali indicazioni sul da farsi, finché questa opzione era disponibile.

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