Renato Nicolini: il “Meraviglioso urbano” e “Qualcosa che rimane”

Dieci anni fa ci lasciava Renato Nicolini.
L’architetto che fu Assessore alla cultura della capitale in anni in cui si faceva cultura della politica, e che riscoprì la politica della cultura.

Aveva 34 anni quando immaginò che alla base di una politica culturale dovesse esserci l’incontro: l’antico e il modernissimo, con i resti di Massenzio che incontravano l’arte più giovane, quella del cinema.

In un momento in cui la cultura era elemento di distinzione, con l’università sottoposta a continui controlli per impedire che divenisse di massa, Nicolini osò unire l’alto col basso, l’élite con il popolare, Visconti con il Pianeta delle Scimmie.

Realizzò concretamente la riscoperta dei luoghi attraverso non soltanto la mera conservazione, ma la restituzione ad essi di una funzione, una vivibilità, un uso, che li rendesse città e non più eredità o arredo urbano.

C’era nella sua visione, perseguita anche con sperimentazione, coraggio (come per il festival della poesia di Castelporziano) e la quasi gratuità degli eventi, l’importanza dell’aggregazione del diverso, la necessità di instaurare l’abitudine all’uscire, all’andare fuori: di casa (in anni in cui non era scontato), dalle proprie abitudini, gusti, sensibilità, per spingersi a stare con l’altro, per vivere un evento ed essere contemporaneamente, insieme all’altro, l’evento stesso.
Il cittadino vive la cultura e la città, alimentandole entrambe.

A Renato Nicolini e all’Estate Romana, nata come me nel 1977, venne contestata l’assenza di strutture, il mancato investimento in realtà stabili, durature e non fruibili solo in un dato momento.
La politica dell’effimero divenne per alcuni un dispregiativo.
“Bisogna spendere soldi per qualcosa che rimanga alla città”, dicevano i detrattori.
Eppure dopo quasi mezzo secolo ancora si parla di quell’esperienza, che è diventata essa stessa un patrimonio della città.

Quei romani, dell’alta borghesia o dei quartieri popolari, benestanti o proletari, colti o semplicemente curiosi, hanno vissuto un’esperienza che è rimasta nelle loro vite, nel loro modo di essere cittadini e di considerarsi in rapporto ai luoghi, all’arte, al “meraviglioso urbano”.

Un’abitudine alla fruizione della cultura che certo non ne esaurisce tutte le modalità di incontro con essa né tutte le funzioni, ma che senz’altro oggi è interiorizzata e si è ripetuta in moltissime esperienze successive, fino alle Notti bianche a cavallo degli anni duemila, cui partecipavano generazioni anagraficamente e culturalmente lontane da quelle di Massenzio.

Se la cultura non è di tutti, può però essere per tutti, così come può esserlo la città, che non conosce più barriere temporali, spaziali e sociali.

L’Estate Romana e l’effimero che ha rappresentato, hanno significato (anche) questo, e se non si tratta di qualcosa che rimane, cosa lo è?

#qualcosarimane

Renato Nicolini

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