Va bene, lo ammetto: era un calcio di rigore a porta vuota. La prima puntata del primo reality al mondo sulla letteratura ha confermato tutti i timori della vigilia: quasi un disastro.
Nel momento in cui scrivo non conosco i risultati in termini di audience, ma non mi stupirebbe se, nonostante la collocazione assassina alle 22:50 della domenica, Masterpiece avesse fatto registrare un buon ascolto.
Ma cos’è che non mi è piaciuto?
Facile: si tratta di un prodotto televisivo sulla letteratura e non di un prodotto letterario trasportato in TV. Il linguaggio, lo stile, il pubblico di riferimento, è quello degli spettatori e non quello dei lettori. Non mi stupirebbe se si scoprisse che ad apprezzare il format fosse soprattutto il pubblico di X Factor.
La prima puntata ha raccontato casi umani, ha cercato di fidelizzare lo spettatore ai concorrenti per cui fare il tifo, trascurando quasi completamente il motivo per cui questi erano lì: la scrittura.
I giudizi dei giudici (o le parti che vengono mostrate al pubblico) sono sommari, viene estrapolata qualche frase e letto pochissimo (praticamente nulla) dei testi sui quali si basa il giudizio.
Nessun riferimento (se non puramente nominale) agli scrittori di riferimento dei concorrenti, alle loro caratteristiche stilistiche, agli errori, anche più comuni, nella stesura del testo.
“Non bisogna mai essere banali e colmare la distanza fra il testo e la vita vera”.
Questo il principale e forse unico insegnamento che giunge dai giudici in questa prima puntata, se lo si sa estrapolare da una dozzina di abusati cliché: dall’operaia dalla vita difficile che non vuol più stare in fabbrica al trentenne che ha vissuto in strada e usa espressioni come “scendere all’inferno e ritorno”, dall’ex detenuto cui i giudici spiegano che “non sempre il carcere peggiora le persone”all’ateleta che non fa sesso ma ci tiene a precisare che pratica la masturbazione, fino ad un ebreo che prende le distanze dall’ebraismo e che vanta ricoveri per disturbi mentali passando per l’anoressica che ha superato il suo dramma grazie ad una gravidanza e che ora vuole condividere la sua esperienza.
Il tutto, condito dai pareri di uno scrittore bonario, di uno arcigno al limite del credibile e di una bellissima, esotica e accomodante.
Anche il finale, con l’occasione della vita è già visto, rivisto, narrato e digerito: in ascensore, con una donna potente e terribile, un solo minuto per convincerla.
Insomma, se la narrazione doveva essere al centro del programma, si può ben dire che si è trattato di narrazione di bassissima qualità, forse nonostante le buone intenzioni degli interpreti.
Se i dati di ascolto dovessero premiare Masterpiece, credo che gli autori farebbero bene a cambiare rotta: meno spazio alla vita dei non-scrittori, (meglio ancora se, almeno in questa fase preliminare, questo aspetto venisse completamente ignorato), più spazio ai loro scritti.
So che non è televisivo permettere la lettura dei testi, ma si potrebbero pubblicare degli stralci online e soprattutto si potrebbero sfruttare meglio le competenze di Giancarlo De Cataldo, Andrea De Carlo e Taiye Selasi, dando maggiore spazio ai loro commenti, alle motivazioni dei loro giudizi, alle sottolineature degli errori marchiani e più ricorrenti degli aspiranti scrittori e all’individuazione di quello che invece, a parer loro, funziona.
Non si può invitare Elisabetta Sgarbi solo per farle interpretare una versione nostrana e falsa come una moneta da tre euro della protagonista de “Il diavolo veste Prada”. Non si può sprecare un potenziale di competenze ma anche di interesse del pubblico, per creare personaggi di cartone capaci di attrarre lettori immaturi, appassionati del personaggio televisivo più accattivante più che dell’opera più convincente.
Dico che non si può fare, ma è evidente che invece si può. Ma se è questa la deriva che Masterpiece vuole prendere, allora almeno permettetemi un’autodifesa che sa di snobismo ma che invece è resistenza pura verso un certo modo di fare editoria, che mi pare abbia già prodotto risultati evidenti.