Gli scrittori non ci salveranno

Cover LSC MAG 5

La copertina di LSC Mag su cui è stato pubblicato questo editoriale.

Mario Soldati in America primo amore descrive l’accoglienza ricevuta a Neviorche da un italo americano emigrato nella grande mela.

Il suo ospite ha maggiore dimestichezza con l’inglese rispetto allo scrittore, sebbene ciancichi la lingua yankee con residui di un italiano dialettale.

L’italoamericano, che negli anni ‘30 ascolta Torna a Surriento sparato dal grammofono, è orgoglioso della sua condizione: parla la lingua, vive in un posto lontano da casa, un posto che è diventato la sua casa, non è meno americano di chi è nato oltreoceano, o almeno non ci si sente.

E lui, arrivato con la valigia di cartone, apostrofa lo scrittore torinese, che arranca con l’inglese, con un «accà siete ‘nu cafone.»

Soldati, intellettuale che va negli Usa per via di una borsa di studio alla Columbia University, fuori dal contesto che gli è proprio, in casa di un emigrato con la valigia di cartone che, in qualche modo, è riuscito a ritagliarsi uno spazio a New York, è questo: ‘nu cafone.

Questo episodio mi è tornato in mente negli ultimi tempi, con i drammatici fatti di cronaca che di un intero pezzo di mondo deciso a mettersi in marcia, a costo della vita, pur di rivendicare un proprio spazio, un proprio diritto a un’esistenza dignitosa.

Di fronte all’impotenza nel vedere vite che sul tavolo della storia valgono un prezzo molto più basso di quelle di chiunque mi stia leggendo, mi sono sentito inutile.

Ho pensato che portare avanti cause che sembrano grandi e urgenti, come quella di una cultura più accessibile, condivisa e diffusa, fosse una cosa ininfluente per la risoluzione dell’emergenza umanitaria.

Certamente è così: la letteratura non può cambiare il mondo. L’idea che gli orrori quotidiani cui siamo bombardati dai media possano essere anche solo mitigati attraverso la letteratura, o l’arte in generale, è suggestiva, ma anche profondamente falsa.

Perché allora investire nella difesa di studi umanistici, in un mondo che necessita di ingegneri e architetti, medici e chimici, agronomi e tecnici specializzati? Qual è il ruolo di chi scrive un romanzo, se non quello di puro intrattenitore di chi svolge un ruolo ben più prezioso nella società? Più brutalmente, a che servono gli scrittori?

Forse ci risponde David Foster Wallace in Questa è l’acqua, celebre discorso per la cerimonia delle lauree al Kenyon college, nel 2005. In quell’occasione lo scrittore sottolineò come gli studi umanistici non servissero soltanto a imparare a pensare (capacità data per scontata in uno studente universitario), quanto nella capacità di scegliere a cosa pensare, o meglio, scegliere le cose cui dare realmente importanza, uscendo dalla modalità predefinita che vede l’esperienza frutto di una visione esclusivamente egocentrica di ogni accadimento (se non succede a noi, succede intorno a noi).

Con questo voglio dire che al di là di ogni (bassa) speculazione politica, la comprensione del fenomeno migratorio non può che passare dalla capacità di espellere dal proprio giudizio ogni componente egocentrica se non egoistica, capacità che la lettura può aiutare a sviluppare.

Ed ecco la risposta alla domanda rimasta in sospeso: a cosa servono gli scrittori? Gli scrittori non possono mai cambiare il mondo. Difficilmente possono aiutarci a comprenderlo. Ma ogni volta possono aiutarci a cambiare punto di vista, chiedendoci lo sforzo di guardare la vita come se non fossimo soltanto il personaggio che ci è toccato in sorte di interpretare. Che sia quello del professore o del cafone con la valigia di cartone

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