Come stai tutto bene mi raccomando

Quando gli ho fatto gli auguri al telefono ha risposto come al solito: un po’ affannato, si è tirato su dalla poltrona appositamente, e con un certo imbarazzo poi, che parliamo tanto ma al telefono mai, ci sentiamo stupidi, e le parole inutili, sempre troppe oltre quelle vuote, di rito, come stai, tutto bene, mi raccomando.

Una telefonata così, che è diventata importante solo perché è stata l’ultima.

Poi la quotidianità di un tempo s’è fatta ricordo, e le cose da ricordare sono diventate tutte, pure quelle piccole, che in fondo chi se ne importa, ma le ricordiamo lo stesso, per dire era così, ti ricordi?

Quello che mi manca è che eri troppo grande da abbracciare tutto, e adesso nemmeno un pezzo piccolo, manco un posto dove ricordarti per bene, dove guardare e immaginarti lì: da troppo a niente. Che poi non è manco questo, ché se avessi ancora quella poltrona, quel giardino, quell’auto, magari non ci farei caso, e però adesso mancano.

Su quella pietra non sapevamo che scrivere, che tu credevi poco e noi pure, però adesso ogni tanto noi di più, perché ci serve, perché pensiamo serva a te. “Uniti nel tuo ricordo”, c’è scritto uniti ed è vero, ma non ti ricordiamo quasi mai, solo ognuno per conto suo.

Mi piacerebbe ritrovare un insegnamento da tramandare a Ginevra e non ce l’ho, perché quello che mi hai insegnato lo hai fatto con la vita e poco con le parole, e le cose belle che cerco di essere quasi tutte da te vengono, pure quelle che tu non eri, e io proprio per questo le cerco. Quindi è più difficile: ci vuole tempo.

Siamo stati sempre diversi, io con le mani non so far niente, e chi mena primo mena du vòrte per me non vale mai, eppure ogni giorno lo vedo che non siamo così diversi, e non c’entra la faccia nello specchio ma la storia, che è sempre quella, io sto solo scrivendo la seconda parte, la parte mia. La terza, se conto Nonno Michele.

Per questo la storia deve finire bene, perché sennò tutte le parti difficili che ci sono all’inizio, che a me non sono toccate ma che mi hai voluto raccontare, la sera soprattutto, la notte con le finestre aperte a immaginare la scuola di Pietralata occupata, prima tu che la Morante me l’hai raccontata, non sarebbero servite a nulla, e a me le storie senza finale piacciono solo se non ci sono dentro io.

La storia continua e tutti noi scriviamo un pezzo, e io e Federico ci tocca pure di insegnare a scrivere ai nostri figli, cercare un finale ancora migliore. Mi piacerebbe conoscessero le parti che li hanno preceduti, ma chissà se vorranno, chissà se saremo capaci. A ricordarle sì, ma raccontarle, quando non sono proprio cose tue, non è lo stesso. E invece sono proprio cose tue, mie, e pure loro.

Mi piace immaginarti contento di quello che hai fatto, ma mica lo so se lo sei, che hai sempre avuto smania di fare altro, chissà che cosa poi, non vedi che va tutto bene così?

Te lo vorrei dire, ma no per telefono, che sarebbe un come stai, tutto bene, mi raccomando, che si dice ma non ci si crede mai.

E invece come stai, noi tutto bene. Mi raccomando.

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