Per un leader politico conta saper comunicare. Una volta si usava l’espressione “bucare lo schermo”, adesso che i parametri non sono più solo televisivi, ma anche del web 2.0, non basta più una bella immagine, un sorriso accattivante e una buona parlantina: la comunicazione si è fatta più veloce, immediata, basata sulla capacità di engagement, fosse anche negativo.
In un sistema che fatica a distinguere tra valore e popolarità, chi è più bravo a interpretare il sentiment più diffuso, chi “arriva di più” alla gente, guadagna consenso. Poco male, se non fosse che oltre a questa popolarità fatta di followers, like e condivisioni non c’è nulla che attribuisca anche credibilità: se dici quello che mi piace sentirmi dire, mi piaci. E se piaci a tanti, vuol dire che hai ragione e sarai sicuramente tu quello che sa quale sia la soluzione per i problemi che ci affliggono. Ee: ti voto.
Un ragionamento elementare che sembra essere accettato senza alcuna obiezione dall’elettorato, che nel giro di pochi anni ha visto regalare in maniera schizofrenica plebisciti a Berlusconi, Renzi, Grillo e Salvini, profili politicamente distanti ma uniti nella capacità di saper utilizzare, meglio dei rivali, gli strumenti della comunicazione.
Occorre domandarci però, se tutto è ridotto all’elezione del leader più carismatico, scelto con un approccio post ideologico che non si tiene su una solida base valoriale, se non si corra il rischio di diventare tifosi, o meglio fans, più che cittadini attivi.
Dal “ghe penso mi” al “Capitano” il passo è breve e un popolo affascinato dall’idea dell’Uomo Forte, tanto da riconoscergli un sostegno acritico e un ruolo quasi messianico, permette al leader di turno di indirizzare i sentimenti dei propri followers/elettori, in qualche modo creando esso stesso l’idea del problema che si propone di risolvere: i comunisti, le vecchie generazioni da rottamare, le classi dirigenti a tutti i livelli o gli immigrati, diventano di colpo le priorità del Paese, l’emergenza per cui bisogna scegliere chi è in grado di risolvere il problema. E questo, sia chiaro, senza che ci sia nessuna evidenza reale che giustifichi la scelta: Berlusconi vinse attaccando il malgoverno dei comunisti malgrado questi fossero relegati all’opposizione praticamente da sempre, Renzi cavalcò la rottamazione invocando il principio tutto da dimostrare che le nuove generazioni fossero migliori delle vecchie, Grillo è riuscito a convincere milioni di persone che i costi della politica (una percentuale ridottissima del PIL) fossero alla base di ogni ingiustizia sociale mentre Salvini ha individuato nello sbarco dei migranti il capro espiatorio su cui indirizzare le paure della gente, spesso più legate alla palese incertezza del futuro che alla remota possibilità di veder peggiorate le proprie condizioni di vita dalla presenza di immigrati.
Non esistono analisi, soluzioni graduali, scomposizione di problemi complessi: al tempo dei social esiste solo il messaggio semplice e risolutivo di chi si fa catalizzatore della volontà altrui, al tempo stesso forgiandola. Un meccanismo nuovo e scivoloso, in cui un tema come i porti chiusi può essere utilizzato anche nella campagna elettorale per le regionali dell’Umbria, quando ci si aspetterebbe che si parlasse di tutt’altro. Il risultato è un confronto ridotto ai minimi termini, risolvibile con un sondaggio on line cui può partecipare chiunque, indipendentemente da quale sia la propria conoscenza della questione o capacità critica. E se c’è un trend topic, di cos’altro vuoi che si parli?
Tutto ciò crea un effetto a catena non solo sui contenuti del dibattito pubblico, ma anche sulla valutazione dei suoi protagonisti: se a dettare l’agenda è quello che va per la maggiore sui social, che ha la battuta pronta in video, che costruisce la sua base elettorale con un post, la conseguenza è che siano questi gli elementi in grado di dare valore a chiunque. Sei preparato, onesto, hai esperienza, ti sei dimostrato coerente con le tue idee politiche e rappresenti le istanze di una collettività che si riconosce nelle tue idee? Bene, ma quanti follower hai? Sai lanciare un hashtag? E sei bravo a blastare gli avversari?
Il primo a mettere consapevolmente in campo la sua capacità comunicativa è stato Silvio Berlusconi, forte del suo innato senso del teatro e dell’esperienza maturata costruendo un impero commerciale. Da clienti a elettori il passo fu brevissimo, ma il cittadino restava ancora in larga parte oggetto del messaggio totalizzante, dello slogan facile da assimilare e ripetere al bar. Al “Meno tasse per tutti” credettero in molti, tuttavia pochi erano artefici del messaggio, ancora inquadrati nella sovrapposizione di elettori e telespettatori.
Con l’arrivo del web il paradigma cambia: Renzi chiama a raccolta un’intera generazione e conia slogan che comunicano la fretta, la necessità dell’immediatezza nel cambiamento che propone; andare veloce è un messaggio assai più chiaro della destinazione d’arrivo, ma coinvolge milioni di persone, che chiedono tutte un “cambio di passo” della politica italiana. Ancora una volta la capacità comunicativa di un leader fa guadagnare consenso: con Matteo Renzi le metafore bislacche di Pier Luigi Bersani, che lo ha battuto alle primarie appena un anno prima, sembrano preistoria, così come la pacatezza istituzionale di Enrico Letta pare inadeguata alle esigenze dei tempi.
Ma prima di Renzi era stato Beppe Grillo, con uno dei blog considerati più influenti del mondo, a utilizzare le potenzialità della rete creando il Movimento 5 Stelle, capace di inventare una classe dirigente dal nulla e andare al Governo in molte città italiane, compresa la capitale. Le idee del M5S, vagamente ambientaliste, legaliste, ispirate alla decrescita felice e talvolta contraddittorie, sono ancorate a slogan generici quanto discutibili come “Uno vale uno!” e “onestà!”: non proprio un trattato di Montesquieu, eppure bastano. Dopo soli quattro anni dal massimo successo elettorale del suo partito, Renzi sprofonda all’ultimo posto nel gradimento degli elettori e nel 2018 la sua disfatta segna il trionfo dei Grillini, che scelgono Di Maio quale leader (un giovane di nessuna esperienza politica né professionale di rilievo prima che il M5S lo catapultasse in Parlamento, addirittura alla vicepresidenza della Camera dei Deputati). I ragazzi di Grillo vincono le elezioni e iniziano a lanciare hashtag rivoluzionari dai banchi del Governo, ma la loro è una parabola ancora più veloce, con l’alleato Salvini che ne logora il consenso, e la successiva alleanza col Pd che non inverte la rotta e li vede in caduta libera: trionfarono accusati di populismo, vengono fagocitati da una specie (populista) più aggressiva e spregiudicata, Matteo Salvini.
L’ex Ministro dell’Interno utilizza strategie di comunicazione fin troppo elementari (la cosiddetta Bestia, che interpreta il sentiment della rete e lo cavalca) e a forza di piatti di pasta, pizze, gattini e post indignati su fatti di cronaca nera, finisce per interpretare costantemente il più semplice senso comune (lui stesso si richiama sovente al buon senso) e trasforma la Lega da forza regionale a primo partito italiano. Questo in barba ad ogni evidenza circa le storiche politiche antimeridionaliste di Salvini e della Lega, che aumentano i consensi anche al Sud, perché ora il trend topic è sui porti chiusi e l’immigrato pericoloso.
Anche Salvini però vede già ridurre il proprio consenso ed è significativo che la prima sconfitta elettorale dal momento della sua ascesa arrivi in Emilia Romagna, culla del movimento delle Sardine: nate come movimento spontaneo di piazza hanno mobilitato centinaia di migliaia di persone su valori comuni importanti ma generici, come l’antifascismo e la riscoperta della gentilezza e del rispetto nella dialettica politica, presentati in un format che riscopre la piazza e utilizza anche la musica per unire sotto la stessa bandiera. È ancora presto per ogni valutazione e le Sardine sembra non vogliano identificarsi in un leader, ma nel frattempo evitando di elaborare una proposta politica meglio delineata, non accettando la presenza di bandiere di partito alle manifestazioni (che in qualche modo possono rappresentare la concorrenza), e al tempo stesso definendo il movimento, nelle parole di Mattia Santori, come “un brand”, dimostrano una certa consapevolezza nell’utilizzo degli strumenti della comunicazione (e addirittura del marketing), anche se in questo caso, almeno al momento, non sono finalizzati ad una concreta speculazione politica.
La ricerca del Capo in grado di attrarre consenso, soprattutto se utilizzando la comunicazione a prescindere da quale sia il messaggio da veicolare, in questa versione post ideologica della democrazia, dà buoni frutti, ma come si è visto marciscono in fretta. La capacità di comunicazione infatti può essere più o meno efficace a identificare un problema, ma non basta da sola a risolverlo.
Ma c’è anche un altro motivo: esiste un meccanismo perverso che vede il popolo guardare con ammirazione i vincitori, ma anche abbandonarli in fretta quando le fortune si fanno alterne. Addirittura si potrebbe pensare che il cittadino ammaliato dalla superiorità del leader possa provare una certa soddisfazione nel vederlo cadere nella polvere quando diventa troppo ingombrante, ed è pronto a sostituirlo con nuovi idoli: di esempi, ne è piena la storia.
Probabilmente però l’aspetto più sottovalutato è che senza una comune e stratificata visione del mondo, dei rapporti economici, sociali, addirittura umani, il filo che lega un leader al suo popolo si tiene sui sottili filamenti del prestigio personale, assai più effimero di una lotta condivisa, di cui il leader è semmai strumento, non artefice. Senza questa consapevolezza, in democrazia, ogni disegno politico costruito essenzialmente sulla capacità di comunicare, è destinato a fare la stessa fine ingloriosa e a scorrere via dalla Storia come un tweet dallo schermo.