Oggi Giorgio Chinaglia avrebbe compiuto settant’anni. Per l’occasione, pubblico un mio ricordo del centravanti laziale scritto in occasione della sua scomparsa.
C’è una foto famosa, con l’omone urlante che punta il dito contro i nemici inferociti, sul volto l’urlo vittorioso di chi ce l’ha fatta per l’ennesima volta.
Poi ce n’è un’altra, magari famosa anche quella, ma io non l’avevo mai vista prima d’oggi.
Sul muro una scritta, fatta da una mano malferma, dice “Laziali Basta.rdi”. Roba da far digrignare i denti e stringere i pugni per chi a Roma ha scelto i colori del cielo.
Ma subito sotto la scritta, nella foto, c’è lui.
Giorgione legge il giornale, non guarda l’obiettivo, la macchina fotografica non esiste. Non guarda la scritta alle sue spalle, non esiste neanche quella. E se esiste, meglio così: è la prova che qualcuno, bomboletta spray alla mano, ha sentito bruciare forte nel braccio (e forse non solo lì…) , la dirompente lazialità che lui ha saputo risvegliare, nutrire, ripagare.
Giorgio è laziale. Incarna la lazialità. Una lazialità che si basta, che non ha bisogno di essere definita da chi non la capisce, anzi la contesta. Il più amato di sempre per i suoi, il più odiato di sempre per gli avversari. Solo lui può fotografarsi sotto una scritta del genere, perché solo con la sua presenza quella scritta non è più offensiva, anzi è quasi una rivendicazione.
Una lazialità sbattuta in faccia a tutto il mondo, noncurante del mondo stesso.
Dopo queste due foto ce ne sono state centinaia, migliaia, che hanno centrato la lazialità, l’hanno raccontata, testimoniata, custodita. In molte di esse c’è ancora lui, Giorgione, anche se mai più riuscirà ad esserne interprete capace come quando prendeva a pallonate anni di frustrazioni, sue e del suo nuovo popolo, tra il Galles e la Serie B, a servire tavoli o a guardare i campioni sempre e solo con la maglia a strisce.
Ci sono foto di abbracci disperati, di esodi oceanici e imprese titaniche, anche se relegate nelle pagine in fondo alle cronache sportive. Ci sono foto di successi a colori, maglie scintillanti come le coppe internazionali, e ancora lo scudetto, che stavolta non è il suo. Nel secondo scudetto Long John non c’è, ma non c’è nessuno, nemmeno nato dopo il 1974, che quel giorno di maggio, con il sole sulla pelle e la pioggia nelle cuffiette, non abbia pensato a lui, almeno in un momento.
Oggi c’è ancora la Lazio, e anche se non c’è più Giorgione, quell’omone col dito puntato e il sorriso di sfida non può più andarsene lontano, niente potrà cancellarlo. Non ci sono riusciti i successi, i tantissimi campioni (troppa grazia, per chi prima di Chinaglia si attaccava a miti antichissimi per riempire il proprio Pantheon), nemmeno le ultime tristi vicende giudiziarie. Troppo forte quell’amore, troppo forti le gioie che quell’uomo ha regalato in campo ad un intero popolo.
Eppure la Lazio c’è ancora. Con traguardi importanti ancora da raggiungere e guerre interne che paiono infinite, con la frustrazione di non poter dominare un calcio sempre meno imprevedibile, ove chi vince pare predestinato.
Oggi la Lazio è circondata.
In campo e fuori. Persino fra quelli che la amano si scatenano fratture che possono solo indebolirla. Mai più di oggi ai laziali servirebbe uno Giorgio Chinaglia.
Ma Giorgio Chinaglia non c’è più, se non nei ricordi, se non nelle foto.
Non ne nascerà un altro così, ne qui né altrove.
Quest’anno che la maglia somiglia così tanto a quella che portava in giro lui. Quest’anno che la partita scorsa in curva Nord è apparsa magnifica e luminosa l’immagine di Re Cecconi, appoggiato al palo e sventolante su un’enorme bandiera, lo scudetto cucito sul petto. Quest’anno che ricorderemo come quello in cui ci hai salutato. Quest’anno che sabato sera c’è Lazio-Napoli, partita che conta, in ballo un pezzo di futuro.
Ci saranno tutti, ancora una volta.
Per Giorgio che non c’è più, per la Lazio che c’è ancora.