Non ho mai amato il Carnevale. Mi piacerebbe dire che alla base di questa mia refrattarietà a maschere e travestimenti ci sia un istintivo rifiuto di celare la realtà, la voglia di arrivare a vedere la vera essenza delle persone e non la proiezione che esse fanno di sé aiutate da un costume, una parrucca, un po’ di trucco.
Mi piacerebbe poterlo dire, davvero.
Solo che la vera motivazione è che io ho avuto sempre delle maschere di merda.
Sempre, nessun Carnevale fa eccezione. Tranne forse quello in cui avevo più o meno quattro anni, quello in cui vestito da Zorro piango in tutte le foto, probabilmente per la consapevolezza di dover abbandonare presto l’unico costume che mi avrebbe restituito un minimo di dignità.
Inutile girarci intorno: la colpa è di mia madre. Intendiamoci, sono maschio, italiano, cresciuto negli opulenti anni ’80 tra merendine e cartoni: è ovvio che adori mia madre.
Mia madre è straordinaria, come persona e come mamma in particolare: per i figli ha fatto tutto, anche quello che non sapeva fare. Tipo i costumi di Carnevale, nel mio caso.
“I costumi fatti in casa sono più belli” diceva, non ho mai capito se per risparmiare o perché ci credeva davvero; ho una zia a Civita Castellana, una donna all’antica in un posto in cui il Carnevale è molto sentito: effettivamente anche lei cuciva in casa i costumi dei miei cuginetti, e devo ammettere che anche per me, bambino di città che non aveva idea di cosa fosse l’artigianato e che credeva che le cosce di pollo nascessero direttamente così nella vaschetta, quei costumi erano davvero belli.
Solo che c’era una differenza di fondo: mia madre non sapeva cucire. Non sapeva scegliere le stoffe. E soprattutto, aveva gusti di merda.
Sono il secondo figlio di tre: maggiore la sorella, minore il fratellino. Va da sé che non potessi in alcun modo riciclare i vestiti da damina, principessa della neve, Giuseppina Bonaparte che toccavano in sorte a mia sorella. E pazienza se nessun bimbo sapesse chi era Giuseppina Bonaparte, mia sorella era fichissima!
Mio fratello piccolo invece, i miei costumi poteva riutilizzarli eccome. Infatti il suo primo costume fu quello di Zorro, che se ci penso ancora oggi ho una fitta al cuore. E io? Dismesso l’abito del giustiziere mascherato, da cosa mi sarei travestito? Batman, il cavaliere oscuro? Megaloman, il karateka ipercrinito? Uno dei tre moschettieri, cappa, baffetto e spada sguainata? Un terribile pirata dei sette mari, cattivo ma almeno fico? No. Mia madre aveva deciso che io dovevo essere il figlio su cui sperimentare la sua vena creativa. Mi vestì da pagliaccio.
Ora, non è che io ce l’abbia con i pagliacci, però era abbastanza difficile, giocando con i compagni, immedesimarsi nel mio personaggio facendogli compiere gesta eroiche. Che fa un pagliaccio, a parte starsene fermo lì e compatire l’assenza di gusto nello scegliersi le cravatte?
In realtà il mio costume era realizzato in maniera piuttosto accurata: pantaloni larghi di mio padre, rivestiti di toppe colorate; camicia sgargiante che nascondeva un cuscino per fare la pancia (non potevo essere un pagliaccio in forma io, no! Dovevo pure essere obeso); imbarazzante cravattone multicolor anni ’70 (che qualcuno doveva pur essersi messo, una volta o l’altra); straccali di mio nonno e trucco veramente ben fatto. Il tocco di classe era una bombetta di plastica in testa, alla quale mia madre aveva applicato tanti fili di lana gialla a comporre una specie di parrucca effetto Enzo Paolo Turchi. Adesso non ricordo se mi desse più fastidio la lana che mi si appiccicava al trucco, oppure il fatto che i fili fossero fissati al cappello con delle graffette, che dopo un paio d’ore iniziai a immaginarmi le sofferenze di Cristo con la corona di spine.
Fatto sta che, così conciato, mi avviai alla festa di Carnevale tra la moglie di Napoleone Bonaparte e Don Diego de La Vega. Il mio abito non mi piaceva per niente e se sorridevo era perché qualcuno aveva disegnato così la mia bocca. Quello che non sapevo è che negli anni successivi avrei rimpianto quel travestimento.
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