L’ultimo costume che ho indossato a Carnevale lo ricordo ancora bene.
Ero un bambino timido, “riservato”, dicevano i grandi. Socializzavo poco, già allora preferivo passare il mio tempo a leggere fumetti piuttosto che a giocare con gli altri, a fare nuove amicizie.
I miei non potevano accettare che anche a Carnevale avessi questo atteggiamento. Dovevo mascherarmi, stare con gli altri bambini, in una parola: divertirmi.
“Ma come faccio a divertirmi se ho sempre dei costumi brutti, goffi, ridicoli o incomprensibili”, protestavo io. Per i miei non era vero, ero io che ero strano. “I tuoi costumi sono come quelli degli altri”, diceva mia madre, mentre armeggiava con il mio vecchio costume da Alcor, personaggio gregario di Goldrake che avevo infaustamente interpretato qualche anno prima. L’abito andava adattato per mio fratello: anche lui si doveva arrangiare, quell’anno lì, mi fecero pesare. Tolto il casco e i guanti, adattata la tutina blu con una toppa ad hoc, aggiunto un mantello rosso e un paio di stivali e oplà: ero il fratello di Superman. Volevo vomitare. Continua a leggere