In Scrivere è un tic. I segreti degli scrittori, divertente libricino uscito qualche anno fa per minimum fax, il futuro premio Strega Francesco Piccolo riportava le testimonianze di decine di “scrittori che parlavano di come scrivevano, quanto, dove, come avevano cominciato e perché”.
È una lettura godibile che elenca le modalità con cui monumenti della letteratura mondiale e onesti mestieranti, scelti quasi senza alcun criterio di selezione, si accingessero a scrivere.
È curioso notare come nel libro non si marchino particolari differenze nell’approccio e nell’utilizzo della scrittura fatto da autori distanti temporalmente anche più di un secolo.
Due capitoli in particolare mi colpirono subito, li cerchiai con la matita: quelli in cui si evidenziava il luogo in cui la scrittura si concretizzava come componente fondamentale per l’atto creativo, e la necessità che tale atto avvenisse in perfetta solitudine.
La prima edizione di Scrivere è un tic è del 1994: un’epoca in cui i telefonini portatili erano rari ed elementari e la diffusione del web era immaginata attraverso i libri di Orwell.
Allora non ti portavi il mondo in tasca, non c’era un touchscreen pronto a collegarti con i tuoi amici e non sognavi nemmeno di metterti a parlare con un perfetto sconosciuto, picchiettandolo su una spalla per attirarne l’attenzione, cosa oggi possibile con un solo “clic”.
Per gli scrittori non era diverso: non era immaginabile che appassionati e addetti ai lavori si accapigliassero per giorni su una finta lite on line come quella tra Christian Raimo e Claudio Morici, coinvolgente come una scazzottata di Bud Spencer e Terence Hill (che ho sempre immaginato si divertissero a girare quelle scene più di quanto facessero il loro spettatori guardandole).
A quei tempi i libri bisognava leggerli per esprimere un parere in merito, non potendoselo costruire in rete senza troppi sforzi, serviti da un efficiente motore di ricerca, né ci si poteva improvvisare critico nelle “discussioni da forum”, ché quasi sempre erano banali liti tra vicini in un farlocco tribunale televisivo.
Erano anni in cui l’annuncio di Gian Paolo Serino della chiusura di minimum fax non ci sarebbe stato, perché nessuno avrebbe amplificato con la sua partecipazione consentita dal web 2.0 una non-notizia come quella, immediatamente smentita dagli interessati.
Delle incursioni di Fulvio Abate a casa Bellonci, durante lo scrutinio per eleggere la cinquina dello Strega 2014, avrebbero letto in pochissimi, chiedendosi dove fosse la notizia e non potendo approfondire sbirciando la serrata discussione fra lo scrittore e Stefano Petrocchi, direttore della fondazione, che magari sarebbe avvenuto attraverso una privatissima telefonata e non su un social network.
A quei tempi Christian Rocca e Guia Soncini probabilmente avrebbero perso lo stesso la considerazione di Guido Baldoni, però almeno avrebbero evitato la figuraccia che hanno fatto trattando il figlio del giornalista ucciso dagli estremisti islamici con l’arroganza e la supponenza di chi forse non è più abituato a mettersi in discussione.
A quei tempi però, sarebbe stato anche impossibile salvare grazie alla rete un libro destinato al macero, Sirena (mezzo pesante in movimento) di Barbara Garlaschelli nell’edizione Salani, che certo non avrebbe vissuto una nuova vita con i lettori della scrittrice piacentina pronti ad acquistare in brevissimo tempo tutte le copie riscattate dall’autrice.
Consapevole del rischio di scivolare nell’autoreferenzialità, non posso non riflettere sul fatto che in quegli anni anche un progetto come il festival Liberi sulla Carta non avrebbe potuto varcare i ristretti confini della realtà territoriale in cui si svolge, raccogliendo tramite il crowdfunding i contributi necessari alla sua sopravvivenza.
Perché certo, sono passati vent’anni e il mondo (non solo editoriale) è cambiato, c’è più gente che scrive e forse ci sono meno scrittori.
Ma qualche storia bella da raccontare è ancora possibile trovarla.
Anche usando un tablet, in mezzo a tanta altra gente.